Laboratorio condotto da Loris Seghizzi e Dimitri Galli Rohl

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Quando si è chiamati a presentare un progetto, è doveroso cercare di scegliere le parole che si ritengono più appropriate nel tentativo di giustificare la scelta di coloro che dovrebbero preferire la nostra proposta rispetto a quella avanzata – magari contemporaneamente – da altri esperti del settore. Ecco la ragione del titolo di questa sorta di “riassunto programmatico”, atto non solo a destare la curiosità di coloro che lo leggeranno ma scritto con l’intento di approcciarsi alla (eventuale) selezione in modo onesto. Ancora qualche riga di attenzione, per favore.

Sul significato della parola “pedagogia” applicata al teatro sono stati – e ne verranno – scritti un numero spropositato di testi, tutti (più o meno) degni di essere letti almeno una volta fino a metà. Non è quindi intenzione di chi scrive aggiungere altro in materia. E’ piuttosto sul termine “fantasma” che riteniamo doveroso porre l’accento. Al di là di sofisticate elucubrazioni citazionistiche di stampo shakespeariano, definiamo “fantasma” il nostro intento formativo nei confronti di terzi poiché siamo perfettamente consapevoli della sua effettiva sostanza. Essa – al momento – è soltanto poco più che un’ombra che sfugge anche ai nostri sforzi di razionalizzazione, un’entità selvaggia evocata durante quel rito mistico che i teatranti di un certo tipo amano definire “prove”. Si tratta infatti di un modo di approcciarsi al lavoro impalpabile, tutt’altro che concreto (come spesso invece il teatro – pedagogico contemporaneo ama presentare se stesso) e assolutamente impossibile da trasmettere se non da coloro che stanno tentando di stabilirne le regole fondamentali.

Alcune di queste “regole”, mirano a definire i campi di competenza dei vari professionisti che rispondono al nome di “attori”. Nel corso degli ultimi cento anni il teatro è risorto per prepararsi a morire ancora una volta ma è nostro preciso intendimento lasciare alcune indicazioni per coloro che vorranno riesumarlo a tempo debito. Se infatti si sono versati fiumi di parole nel tentativo di categorizzare le diverse tipologie di “teatro”, si è ancora molto indietro rispetto alle categorie dell’attorialità. Ad oggi possiamo affermare che esistono i comici, i drammatici, i caratteristi, i televisivi/cinematografici, i brillanti e i mattatori (quelli che oggi si chiamano anche One Man Show). Queste le categorie ufficiali entro cui è comunque possibile effettuare ulteriori distinguo secondo metodi interpretativi, percorsi di formazione eccetera. A nostro giudizio questa è soltanto la punta di un metaforico iceberg. L’attorialità è un sistema espressivo molto più complesso (e quindi noioso) di quanto siamo abituati a considerare, in quanto l’attore è prima di tutto una persona.

Consapevoli di non aver servito altro che una tazza di acqua calda, ci teniamo a specificare – prima che lo possa fare chi legge – che anche Peter Brook ha già affermato quanto detto ma in nessuno dei suoi libri (considerati ormai sacri da ogni teatrante che voglia tentare di meritarsi un minimo di credibilità) il grande regista afferma che i principi che esprime sono sempre (stati) vincolati al momento contingente e alle persone con cui si è trovato a lavorare. La semplicità di Brook è una sintesi e la sintesi di personalità geniali come Grotowsky, Kantor eccetera infatti deve sempre essere contestualizzata e – a parere di chi scrive – mai utilizzata come punto di partenza di un percorso formativo.

Nel tentativo di concludere, possiamo affermare che la singola attitudine recitativa (forse il primo requisito da individuare e quindi catalogare in coloro che tentano di avvicinarsi a questo tipo di forma espressiva) è una sorta di fantasma con cui è bene avere a che fare prima che qualcuno – compresi noi stessi – senta il bisogno di considerarla già come un dato acquisito e quindi muoversi con passo deciso verso quel territorio minato noto ai più come interpretazione. E’ nostra convinzione – ad esempio – che non tutti gli attori siano fatti per ripetere pedissequamente le parole di un copione mentre altri potranno essere spinti all’improvvisazione più estrema senza riuscire per questo a partecipare alla meraviglia della scrittura scenica. Ecco perché è importante definire la tipologia attoriale a cui appartengono le persone prima di qualunque altra cosa. I clichès esistono, per fortuna o purtroppo. Si possono scardinare e sovvertire ma prima devono essere digeriti e resi manifesti. Siamo convinti che il processo creativo di un drammaturgo, di un regista, di uno scenografo possa guadagnare molto in seguito alla formazione di una squadra di lavoro strutturata in modo consapevole e onesto.

La metafora della parola “formazione” in ambito calcistico potrebbe sembrare sufficiente ma è doveroso, a questo punto, spingerci un po’ più in là. Non si tratta soltanto di scegliere gli elementi più adatti a scendere in campo, bensì di interpretare il termine come se fosse una parola composta da due parti: FORMA e AZIONE. Dalla “crasi” di queste due parole può scaturire infatti la SOSTANZA, che i teatranti più ortodossi amano spesso definire verità.

Cerchiamo, prima di tutto – con il nostro metodo ectoplasmatico – di trasformare la persona nella controfigura di sé stessa prima di ogni altra cosa. Sono le scene più pericolose quelle che fanno vendere i biglietti del cinema e – per fortuna – la grafica computerizzata non ha ancora sostituito l’attore in carne ed ossa che calca le tavole di un palcoscenico. Rendiamo il teatro più pericoloso del cinema. Bisogna essere pronti a sopravvivere alle insidie rappresentate da quello “spazio vuoto” che spesso instupidisce come un’overdose di libertà immeritata. Esageriamo.

Per un monologo intimista ci sarà sempre tempo.

Dimitri Galli Rohl