Silvia Rubes in “Preghiera”
monologo di e con Silvia Rubes
Testo di Silvia Rubes
Musiche di Riccardo Mossini
“Come l’atto di pronunciare le parole della preghiera può generare la preghiera” Weil
Presentazione
Ester è una clocharde. Ha scelto di vivere così. È l’ultima tra gli ultimi, è vicina al confine e alla fine. Ha abbandonato ogni comodità, ogni identità e vive per strada, una strada che è, appunto, confine tra due mondi. C’è un mondo fatto di case, vialetti e giardini abitato da famiglie e gente normale, poi c’è il bosco dove le storie sono storie di sparizioni di bambine mitologiche che diventano sante. Ed è lì, tra quei due mondi che una donna prega. Ester prega e prega e prega, non smette di pregare. Prega e prega e prega ancora, prega dio come fosse vero davanti a lei, prega una preghiera che è una cascata infinita di parole perché Ester non vuole soccombere alla sua muta dittatura. E prega e prega con forza, ironia, determinazione, follia e blasfemia. Provando a immaginare, nel frattempo, un mondo migliorato che potrebbe arrivare, se solo qualcuno ascoltasse.
Recitare si dice di un testo e si dice di una preghiera. Questa formula sintetizza la ricerca poetica che sta dietro a questo spettacolo. Recitare è, infatti, sperimentare la forza del dire, quel dire che si fa azione, che diventa azione teatrale di dire. Tutto questo mi ricorda lo sforzo della formica che non rinuncia a raccogliere, che sta lì nel suo doveroso compito, raccoglie e raccoglie e il suo raccogliere diventa la sua preghiera. Ricorda Sisifo, il Sisifo felice e moderno di Camus che rinnega ogni senso alla vita che non sia immanente all’agire stesso e sceglie di assumere, in modo paradossale, il proprio destino come un compito di fronte al quale non c’è possibilità di scelta.
Altre informazioni
Questo testo era stato pensato per una attrice, Silvia Pasello, con cui ho lavorato al CSRT di Pontedera fino al 2010 e anche dopo, quando entrambe avevamo lasciato la Compagnia Laboratorio diretta da Roberto Bacci. Lo avevamo presentato all’interno del Palazzo Medici Riccardi a Firenze per la rassegna Avamposti. Era il 2019. Qualche anno prima avevamo costituito un gruppo di lavoro che avevamo chiamato Collettivo Savannah in onore a vecchi modelli teatrali che consideravamo ancora vivi e che ci orientavano all’idea che un buon teatro si potesse fare anche al di fuori del classico dialogo creativo regista-attore e anche in onore a Marguerite Duras che aveva ispirato un lavoro precedente. Volevamo sperimentare una linea di lavoro collettivo che mettesse gli attori in gioco e lo sguardo del gruppo in campo, per capire, cambiare, ridisegnare i significati che emergevano dal lavoro in scena delle attrici. Non regia in senso stretto dunque ma sguardo collettivo che lavora in dialogo. Il Collettivo si è sciolto nel 2020. Nel frattempo ho rielaborato il testo, ho costruito una cornice narrativa e l’ho fatto diventare una storia che posso raccontare entrando e uscendo dal personaggio, narrazione dentro narrazione.